Al termine di un lungo percorso molto prevedibile siamo giunti alla crocifissione a mezzo stampa di Julian Assange. Le tappe precedenti della storia di Wikileaks sono note e degne della trama di un film di le Carrè. L’hacker ossessivo e disturbato che si inventa una casella Internet per i tanti segreti indicibili del potere. Una idea che gli vale una improvvisa, istantanea attenzione mondiale.
Dopo la rapida ascesa va in onda la altrettanto celere caduta: incarcerato Assange in Inghilterra con cronometrico tempismo per uno strano duplice stupro (in realtà una scandinava questione di preservativi messi e levati e poco più), in attesa da mesi della estradizione in Svezia, i destini della sua associazione sembrano ogni giorno più incerti. Le raccolte fondi per Wikileaks bloccate da numerose aziende americane (banche e fornitori di servizi come Amazon che non vogliono avere a che fare con i traditori della patria), Bradley Manning (la gola profonda di molti segreti di Wikileaks) sbattuto ventitreenne in fondo ad una cella di isolamento a Quantico fra sevizie ed imbarazzi nei confronti dei quali nemmeno Barack Obama ha potuto molto.
Un elenco discretamente indecoroso di tentativi di zittire il progetto che potrebbe continuare a lungo. Fra questi la diaspora fra l’egocentrico Assange ed il suo vice Daniel Domscheit-Berg (che da perfetto sconosciuto trova in un attimo editori che pubblicheranno le sue memorie in tutto il mondo, rapidissimo libello nel quale racconta ovviamente peste e corna dell’ex-socio), la famelica caccia all’uomo da parte di Sarah Palin e di molti altri politici americani che vorrebbero prelevare Assange ovunque egli sia, caricarlo a forza sul primo aereo per gli USA e “fargliela pagare”.
Poco importa se tutto quello che il fondatore di Wikileaks ha fatto è stato pubblicare sul web documenti che altri gli hanno fornito, testimonianze importanti, nelle quali, per esempio, i “danni collaterali” della guerra erano civili e bambini mitragliati da un elicottero Apache. Eventi descritti dalla crudeltà delle immagini e delle imprecazioni dei piloti, voci ed immagini che il governo USA aveva per mesi tentato di nascondere al mondo ed alla stampa mentendo e insabbiando.
Per un po’ di tempo la salvezza di Wikileaks è nelle mani della migliore Stampa mondiale: un accordo saggio ed inedito concede a giornali di tutto il mondo di accedere alle informazioni raccolte da Wikileaks prima della loro diffusione. Per un certo periodo New York Times , Guardian , Der Spiegel ed altri accedono alle verità imbarazzanti della diplomazia mondiale, le controllano come e quando possono e poi le pubblicano, insieme a Wikileaks, con grandi squilli di trombe in quasi perfetta sincronia. Per qualche tempo sembra il matrimonio perfetto: chi sa parla – spessissimo si tratta di informazioni sconvolgenti – Julian raccoglie, il giornalismo controlla e diffonde.
Ma il bel gioco dura poco: Assange è permaloso, diffidente oltre ogni misura, incarcerato nel maniero della campagna inglese dai magistrati del profilattico; Wikileaks è osteggiata più o meno da tutti, continuamente descritta come una pericolosa organizzazione eversiva da politici ed amministrazioni di tutto il mondo, stressate dalla diffusione di migliaia di cablogrammi che descrivono, senza possibilità di smentita, le miserie ed i finti sorrisi della diplomazia internazionale. Così alla fine è il turno della stampa, che vive con sempre maggior fastidio la subalternità alle paranoie del biondo australiano. Come direbbe Tremonti, i giornalisti ad un certo punto dicono “game over”.
Assange non ha tutti i torti quando accusa i giornali di pubblicare solo alcune notizie. Quelle che interessano loro e non altre. È così ovviamente: la Stampa non è l’hard disk di un computer collegato alla rete dentro il quale le informazioni galleggiano ed ogni lettore può decidere se pescarne un paio oppure tutte. La Stampa è un potere come tanti altri: sceglie cosa dire e quando dirlo, molto spesso parla non pubblicando, non sempre (nemmeno nei casi di eccellenza dei quotidiani citati) il lettore è il suo primo referente. Questo Assange, che tanto ingenuo non è, e che viene da vaste esperienze di attivismo e di hacking informativo in Rete, lo sa probabilmente fin dall’inizio: questa sorta di cinismo dei dati, per cui le informazioni hanno valore indipendentemente dal canale che le trasmette era ed è la sua forza ma è stata anche la sua grande debolezza.
Così oggi i cavalieri senza macchia dell’informazione professionale, con quattro righe di biasimo vergate di comune accordo, raccontano ai loro milioni di lettori che il cattivo Julian ha pubblicato in Rete i cablogrammi con i nomi ed i cognomi di riferimenti e agenti, che loro certo non lo avrebbero mai fatto e si rammaricano per la bella storia di collaborazione sul viale del tramonto. Poco importa se la password per renderli noti l’ha diffusa un giornalista del Guardian in un suo libro. Gridano, tutti in coro, allo scandalo del cattivo giornalismo senza scrupoli degli hacker senza morale che usano Internet come il tubo della posta pneumatica, e dimenticano il piccolo particolare che quelle informazioni, che loro non hanno avuto e che Wikileaks ha raccolto, sono il centro del problema.
Scordano che tali dati sono serviti più a loro che a Wikileaks, trascurano il piccolo particolare che le notizie diffuse hanno avuto un enorme valore informativo prima per i lettori che non per chiunque altro. Una cosa che normalmente non succede. Tutto il resto è contorno e cortine fumogene e acque sempre più torbide, agitate ad arte perché sia chiara la vittima sacrificale, la cattiva organizzazione dell’australiano pazzo dai capelli sbiancati – si dice – da una strana seduta di raggi X.
Domandarsi come mai i giornali non sono più fonti privilegiate ed affidabili e come mai le informazioni sempre più spesso vengono diffuse in Rete potrebbe essere per esempio una buona domanda per comprendere le furibonde polemiche di questi giorni. Chiedersi se Wikileaks, il cui meccanismo di diffusione delle notizie certo non finirà con Assange, è una degenerazione dell’ambiente informativo o se invece si tratta di un segnale della progressiva perdita di autorevolezza del giornalismo, potrebbe essere un’altra domanda. Ma soprattutto, a monte di tutto questo, resta l’evidenza della grande distanza fra l’etica hacker, quell’idea secondo la quale il bene pubblico può e deve essere declinato attraverso gli strumenti tecnologici senza alcun compromesso, ed il sistema sociale circostante che vegeta come noto su meno gloriosi principi.
Se, per citare il nostro anarchico di riferimento, davvero “non esistono poteri buoni”, la battaglia goffa e antistorica di trasparenza di Wikileaks e di Julian Assange era, già dall’inizio, destinata alla sconfitta, non solo per colpa di eccessi di protagonismo, priapismi e megalomanie varie. Oggi quel momento non sembra tanto lontano ma non è improbabile che, come previsto dalla logica delle reti, mille altre Wikileaks distribuite si stiano per affacciare all’orizzonte.
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