Contrappunti/ Il sogno delle infinite connessioni

Contrappunti/ Il sogno delle infinite connessioni

di Massimo Mantellini - Il cervello non è un computer e i processi di apprendimento richiedono tempo. Ma la società non ne tiene conto e spinge tutta al consumo veloce di qualsiasi stimolo. La tecnologia? Un degno compare
di Massimo Mantellini - Il cervello non è un computer e i processi di apprendimento richiedono tempo. Ma la società non ne tiene conto e spinge tutta al consumo veloce di qualsiasi stimolo. La tecnologia? Un degno compare

Sarà vero, come sostiene Walter Kirn in un lungo e bellissimo articolo su The Atlantic Monthly (l’articolo è a pagamento sul sito del mensile ma è reperibile qui ) di questo mese che gli americani non riescono a catturare Bin Laden perché camminano e masticano la gomma contemporaneamente? È evidente a tutti che le opzioni di contemporaneità del nostro cervello (quello che nei computer è il multitasking) non sono troppo sviluppate, così come studi neurobiologici sull’area di Broadmann, la zona della corteccia prefrontale dove il nostro cervello mette in ordine cronologico gli eventi che accadono, hanno in passato ipotizzato. Quello che probabilmente accade da quelle parti della nostra testa è che si crei una sorta di rapidissima lista d’attesa delle priorità, in grado, almeno nella prima metà della nostra vita biologica, di simulare la contemporaneità di più azioni. In altre parole, secondo i neurobiologi il nostro cervello eseguirebbe comunque un comando alla volta (almeno per un certo tipo di comandi complessi), ma spesso lo riuscirebbe a fare a velocità tale da darci l’illusione della esecuzione parallela.

Del resto, come dice Kirn, la metafora del cervello come un computer è forse l’esempio più citato in ambito divulgativo negli ultimi anni: utilizziamo le categorie a nostra disposizione e certo il paragone fra l’attività elettrica cerebrale e quella di un CPU mostrano certamente qualche incontestabile attinenza.

Eppure noi oggi, e ancor più domani le nuove generazioni, siamo e saremo bombardati da utilizzi multitasking della nostra capacità cerebrale. Nuovi device e nuove modalità sociali consentono ormai di estendere la nuvola di bit/parole/suoni che ci raggiunge in ogni singolo istante della nostra vita, spesso all’interno di fruizioni contemporanee. Leggiamo o scriviamo ascoltando musica, con un occhio allo schermo della TV e l’altro alla casella della posta elettronica, pranziamo osservando lo schermo del Blackberry, in un crescendo che ha forse la sua maggiore espressione nelle modalità comunicative degli adolescenti che studiano, ascoltano mp3, navigano in rete e chattano con i compagni di classe contemporaneamente.

Secondo alcuni recenti studi citati dall’articolo, le conseguenze di questo bombardamento neuronale non sembrerebbero troppo positive. Lo stress al quale il nostro cervello viene sottoposto nel tentativo di rispondere a questo incremento degli stimoli esterni genera produzione di ormoni come il cortisolo e l’adrenalina, induce alterazioni biochimiche che avrebbero come conseguenza a lungo termine il precoce invecchiamento del parenchima cerebrale. In tempi più brevi ciò che banalmente accade è che esistano concreti rischi legati al calo dell’attenzione e deficit nella capacità di focalizzare ed analizzare i problemi.

Il multitasking ci renderà più stupidi domani e dementi fra 30 anni? Oppure si tratta solo di inevitabili ambientamenti biologici legati al mutare delle condizioni ambientali? Certamente si tratta di evenienze da considerare. E di un argomento da seguire in ogni suo sviluppo.

Volendo volare più bassi, un recente studio dice che negli USA ogni anno ci sono 2600 morti e 330.000 feriti per incidenti automobilistici causati dall’uso del cellulare durante la guida. Anche queste sono complicazioni da multitasking. Volendo volare più bassi ancora, qualcuno si è dato la pena di calcolare – se vi va di crederci – che lo stress da contemporaneità costa in termini di tempo ed attenzione il 28% dell’intera attività lavorativa. Mica male per una tendenza tecnologica che avrebbe dovuto migliorarci la vita.

Esiste come sempre una tara da applicare a simili allarmi anche quando, come in questo caso, l’articolo che ne tratta è tutto tranne che intimidatorio e grossolano. Eppure il sogno delle infinite connessioni, l’illusione di poter aumentare a dismisura la nostra nuvola informativa senza per questo dover immaginare di pagare un qualsiasi prezzo, è fin dalle premesse un sogno senza grandi speranze di poter essere concretamente applicato.

Oltre le metafore, il nostro cervello non è un computer e molti dei nostri processi di apprendimento necessitano, oltre che di dati, anche di tempo speso proficuamente per la relativa elaborazione. Di questo la nostra società sembra non tener conto in alcuna maniera ed anzi le modalità sociali emergenti spingono tutte, invariabilmente, verso un consumo di superficie ed in velocità di qualsiasi stimolo e contenuto.

Non saranno ovviamente i neurobiologi a dettare l’agenda dei nostri comportamenti sociali futuri. È comunque ugualmente importante sottolineare che si tratta di modalità che interesseranno, più che noi stessi, le prossime generazioni di “nativi digitali”. Io da parte mia come scrissi a suo tempo, già da qualche anno mostro chiari i segni degenerativi della mia corteccia prefrontale, che si manifestano per ora in piccole, tutto sommato risibili, infermità: come ad esempio quella di dover scrivere Contrappunti in silenzio in un ambiente tranquillo, quando magari un decennio fa avrei forse potuto farlo ascoltando musica o con il sottofondo dei rumori ambientali della mia famiglia.

Così magari gli americani in Iraq continuano a non riuscire a catturare Bin Laden perché perseverano nel brutto vizio di masticare giorno e notte il chewing gum. Quello che si potrebbe fare, cosi a titolo di prova anche per le generazioni future, sarebbe iniziare a cercare Bin Laden senza masticare nulla. Chissà, magari funziona, e ci indica la strada da percorrere domani anche in campi più virtuosi. Per dirla con Kirn, che cita spesso nell’articolo il famoso slogan di Microsoft della metà degli anni 90 “Where do you want to go today?”, la risposta potrebbe essere “Altrove, semplicemente altrove. In un posto qualsiasi dove poter pensare”.

Massimo Mantellini
Manteblog

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Pubblicato il
3 dic 2007
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