Facebook vende al marketing il disagio giovanile?

Facebook vende al marketing il disagio giovanile?

Il social network ha analizzato le interazioni della giovane popolazione dei suoi utenti, mostrando ai potenziali inserzionisti la propria capacità di auscultarne i turbamenti. Ma si affretta a precisare: i sentimenti degli individui non sono in vendita
Il social network ha analizzato le interazioni della giovane popolazione dei suoi utenti, mostrando ai potenziali inserzionisti la propria capacità di auscultarne i turbamenti. Ma si affretta a precisare: i sentimenti degli individui non sono in vendita

Facebook, a cui gli utenti affidano le proprie emozioni e confidano rappresentazioni dei propri stati d’animo, sarebbe in grado di individuare i segnali del turbamento adolescenziale, i momenti in cui gli utenti sono alla ricerca di conforto e rassicurazioni. Fasi delicate in cui il marketing potrebbe irrompere per proporre prodotti e soluzioni in grado di lenire il disagio emotivo con il balsamo del consumo.

A testimoniarlo, un documento riservato datato 2017 di cui ha preso visione The Australian , sgorgato dalla divisione locale di Facebook: nella presentazione, si riferisce che gli algoritmi del social network, sulla base delle esternazioni degli utenti sulla piattaforma , sono in grado di determinare gli stati d’animo e le loro esigenze più intime, soprattutto dei più giovani.

L’analisi è concentrata su Australia e Nuova Zelanda, e prende in esame 6,4 milioni di studenti e giovani lavoratori di questi mercati: i post, le immagini, tutte le interazioni condotte attraverso il social network, possono rivelare l’andamento degli umori della rete di amici, concentrata nell’attesa e nelle aspettative per i finesettimana, i momenti di sconforto, quando gli adolescenti sperimentano sensazioni di “inutilità”, “sconfitta”, “stupidità”, “ansia”, “stress” e “insicurezza” che contraddistinguono la loro età alla ricerca di conferme. Conferme che si concentrano soprattutto sull’aspetto fisico, e incertezze che si manifestano anche con la rappresentazione visiva dei pasti, mediata dalle immagini caricate su Facebook e Instagram, che certo non sfuggono all’interpretazione degli algoritmi di Menlo Park.

La pubblicazione australiana che ha dato spazio al documento ha lasciato intendere che Facebook sia disponibile a cedere strumenti ed informazioni agli inserzionisti, pronti a colpire i loro obiettivi con proposte adeguate a sfruttare le vulnerabilità dei giovani consumatori. Facebook, dal canto suo, si è affrettata a reagire per smontare le inferenze che nelle comunicazioni interne di cui il Guardian ha preso visione sono state bollate come frutto delle provocazioni seriali di un giornalista della pubblicazione australiana.

Nelle prime note ufficiali , il social network si è scusato per aver preso in esame una fascia demografica tanto giovane, ma assicurando che “la ricerca è basata su dati aggregati e presentata in maniera coerente con le tutele per la privacy garantite dalla legge, fra cui la rimozione di ogni informazione che potrebbe identificare il singolo individuo”. Facebook ha poi ribadito il concetto con un comunicato ufficiale : l’articolo di The Australian è stato definito “forviante”, poiché “Facebook non offre strumenti per inquadrare le persone sulla base del loro stato emotivo”, anche se le soluzioni di analisi per il marketing certo non mancano . La ricerca, spiega Menlo Park, era fondata su dati anonimizzati e aggregati , e non era pensata per orchestrare compagne di marketing personalizzate sugli stati d’animo degli individui, bensì per “mostrare come le persone si esprimono su Facebook”.
Forse perché già scottata dalle rivelazioni su uno studio condotto nel 2012 che esplorava la possibilità di manipolare gli stati d’animo degli utenti, e dalle conseguenze che ha creato , Facebook ha precisato di avere “un processo ben definito per gestire le ricerche che conduce”, un processo aggiornato proprio in seguito allo scandalo, che l’analisi australiana potrebbe non aver rispettato: per questo il social network conferma di aver aperto una indagine sull’indagine.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
3 mag 2017
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