Fake? Yes, please!

Fake? Yes, please!

di Alessandro Bottoni - L'avvento delle nuove tecnologie ha esaltato la diffidenza, persino l'antipatia, che suscitano copyright e brevetti nell'utente comune. Ma quasi tutto, dalla moda alle auto, ne è condizionato
di Alessandro Bottoni - L'avvento delle nuove tecnologie ha esaltato la diffidenza, persino l'antipatia, che suscitano copyright e brevetti nell'utente comune. Ma quasi tutto, dalla moda alle auto, ne è condizionato

Nel corso del 2008, la Camera di Commercio di Ferrara ha condotto una robusta campagna contro le falsificazioni e l’abusivismo nel commercio (” No fakes, thanks! “). In buona sostanza, si è trattato di una campagna pubblicitaria contro i cosiddetti “tarocchi” (“patacche”) ed i cosiddetti “marocchini” (senza offesa per i cittadini del Regno del Marocco, ovviamente). Cartelli simili erano esposti a Dicembre 2008 anche in tutto il centro storico di Firenze.

Mentre in Italia le campagne di questo tipo si moltiplicano, all’estero succede qualcosa di segno diametralmente opposto. In Cina, per esempio, l’Alta Corte di Giustizia della Provincia di Hebei ha stabilito che la Great Wall (un produttore cinese di automobili sconosciuto ai cittadini italiani) non commette alcuna violazione della Proprietà Intellettuale di FIAT Auto producendo e vendendo un’auto che, esteriormente, è una copia fedele dalla nuova Panda (” I cinesi non clonano la Panda – Legittimata la libertà di copiare “).
Che cosa sta succedendo?

Copyright e Patents
Che cosa la “gente” pensasse davvero del copyright, almeno nella forma ultra-protettiva che lo caratterizza al giorno d’oggi, lo si è visto bene con l’avvento di Internet, di Napster e delle reti P2P. In pratica, il concetto stesso di copyright (“diritto di creare copie”) è stato abolito. Nessuno si sente in colpa per questo copyrighticidio ed anzi è sempre più facile sentire commenti apertamente ostili alla legislazione corrente. I brevetti (“patents”) sono tollerati meglio, probabilmente perché si riesce a giustificarli con più facilità sul piano logico, ma non sono indenni da pesanti critiche, specialmente quando si parla di brevetti sul software.
In pratica, è l’intero sistema della Proprietà Intellettuale (PI) che non riesce più a reggere al peso delle critiche ed al mutamento dei mercati.
Quello che sta avvenendo sul piano dei loghi, marchi e segni è semplicemente la logica conseguenza di quello che è già successo, dieci anni fa, con il copyright grazie a Napster.

Altre forme di PI
Oltre al “Diritto d’Autore” (“Copyright”) ed ai Brevetti (“Patents”) esistono infatti diverse altre forme di “Proprietà Intellettuale” (“Intellectual Property”).
I “loghi” come la G di Gucci, ad esempio, sono protetti da un’apposita legislazione, siano essi formati solo da lettere (“nomi”), da disegni (“loghi”) o da una miscela dei due elementi.
Anche i “segni” distintivi, come le tre striscette parallele delle Adidas, ad esempio, sono protetti. Per estensione di questo concetto, risultano protetti tutti gli elementi del “design” di un oggetto. Per questa ragione non si può copiare la forma esterna di un’automobile o il design di una borsa “cartografata” di Alviero Martini.
Sono protetti anche i “marchi” ed i relativi “disciplinari di produzione” che permettono di caratterizzare un prodotto, come quelli del Parmigiano/Reggiano.
Si tratta, si badi bene, di concetti diversi dal copyright e dal brevetto, e sono regolati da leggi apposite.

Cui prodest?
In tutti i casi, questo genere di protezioni viene usato per creare artificialmente dei “mercati protetti”, cioè delle vere isole, all’interno dei quali il produttore che registra il marchio possa vivere tranquillamente senza subire la concorrenza di altri produttori. Su scala internazionale, queste leggi vengono da tempo usate come sostituto dei tanto rimpianti dazi doganali (insieme alle legislazioni sulla sicurezza dei prodotti, sulla sicurezza del lavoro, sullo sfruttamento del lavoro minorile e via dicendo).
Sarebbe stupido negare che almeno una parte di queste barriere sia necessario. Se l’industria del paese A deve competere con l’industria del paese B, allora le due industrie devono avere un sistema produttivo comparabile. Tuttavia, ad essere veramente necessaria a questo scopo è solo la parte che riguarda le leggi sulla sicurezza dei prodotti, sulla sicurezza del lavoro e sullo sfruttamento del lavoro minorile. Sono questi i piani su cui le due industrie, dei due paesi, devono confrontarsi alla pari.
La protezione di nomi, marchi, segni, disciplinari e via dicendo non contribuisce a questo nobile scopo. Serve solo a definire ed a conservare all’infinito i privilegi di alcuni produttori.

Fakes? Yes, please!
Da questo deriva il crescente fastidio che la popolazione di tutto il mondo e molti governi non occidentali mostrano di avere nei confronti di questo tipo di legislazione e questo tipo di proprietà intellettuale.
I grandi “players” economici sono ormai stanchi di assoggettarsi a questo genere di limitazioni. Vogliono giocare liberamente a tutto campo, facendo leva sulle enormi dimensioni del loro mercato interno e sulla immensa capacità produttiva delle loro industrie. La sentenza cinese sul clone della FIAT Panda ne è una dimostrazione evidente.
Anche i consumatori cominciano ad essere stanchi degli eccessi di questo protezionismo intellettuale. I consumi sempre crescenti di falsi ne sono una chiara dimostrazione. D’altra parte, proteggere i diritti intellettuali delle industrie costa soldi e risorse all’intera società e, paradossalmente, permette di mantenere alti i prezzi di una vasta categoria di prodotti che va dalle scarpe da ginnastica, alle borse, agli orologi, al formaggio ed alle automobili. Non si può certo dire che il consumatore/cittadino ne tragga degli evidenti vantaggi.

Oltretutto, le maggiori entrate che questa legislazione garantisce ai produttori titolari dei marchi servono quasi solo ad alimentare il mercato di una pubblicità che è ormai del tutto autoreferenziale. Oltre l’80% degli investimenti di queste industrie finisce infatti in attività di design, marketing e pubblicità. Solo una minima parte finisce in ricerca e sviluppo. Il livello tecnologico dei loro prodotti si differenzia solo marginalmente da quello dei concorrenti, che spesso sono i loro stessi fornitori. Per la stessa ragione, anche il loro processo produttivo non è solitamente migliore di quello dei loro concorrenti, né dal punto di vista sociale né da quello ecologico. Dalle loro vetrine, questi prodotti sembrano dirci: “Io sono un prodotto migliore perché sono più pubblicizzato e quindi più conosciuto, non per altri motivi. I soldi in più che spendi acquistando me, invece di un prodotto anonimo concorrente, servono solo ad alimentare questa pubblicità che ti ricorda che io sono più conosciuto e più pubblicizzato”.

Sulla base di questa maggiore popolarità, c’è addirittura chi inizia a considerare l’acquisto di un prodotto largamente pubblicizzato alla stregua di un investimento, dando vita ad un’intera, nuova tecnologia della “certificazione di autenticità” ( Contro i falsi, i certificati. Digitali ).
Francamente, siamo già entrati da tempo nel regno del paradosso e del surreale.

Altre voci, altre stanze
Ciò di cui ci sarebbe bisogno sarebbe invece una legislazione che promuovesse l’investimento in ricerca, al fine di rendere il prodotto tecnologicamente più avanzato ed il processo produttivo più rispettoso dell’ambiente, dei lavoratori e dei consumatori.
Le attuali leggi sulla sicurezza del lavoro, sullo sfruttamento del lavoro minorile, sul rispetto dell’ambiente vanno in questa direzione. Promuovono un tipo di concorrenza reale, basato su fatti concreti e slegato dagli aspetti puramente seduttivi del prodotto.
Forse è tempo di smettere di proteggere il “design” della Panda e cominciare a difendere ciò che veramente rende un prodotto migliore di un altro e ciò che rende un ciclo produttivo migliore di un altro.

Alessandro Bottoni
www.alessandrobottoni.it

PS: coloro che pensano di sostenere l’occupazione italiana acquistando un prodotto di marca italiano, sono invitati a riflettere. Nel settore moda, che è quello che richiede la maggiore quantità di manodopera, meno del 10% del prezzo dei prodotti è dovuto alla forza lavoro (all’occupazione). Nel settore auto si scende ben al di sotto del 5%. In altri termini, se volete sostenere l’occupazione italiana, non comprate una borsa di marca a 300 euro. Fate piuttosto un versamento di 30 euro all’INPS (che paga la cassa integrazione) e con la differenza comprate quella borsa, identica al prodotto di marca, che avete visto al mercato a 19 euro. Voi spenderete meno e l’occupazione avrà maggiori risorse economiche su cui contare. Gli unici a perderci saranno il produttore della borsa di marca (nel 90% dei casi un americano) ed il suo studio di design e pubblicità.

Tutti i precedenti interventi di A.B. su Punto Informatico sono disponibili a questo indirizzo

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Pubblicato il
12 gen 2009
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