RIAA, ora sul banco degli imputati

RIAA, ora sul banco degli imputati

La controdenuncia di una donna accusata di violazione del copyright: l'industria della musica, ha spiegato ai giudici, crea un clima di terrore, minaccia i cittadini della rete ed estorce loro denaro
La controdenuncia di una donna accusata di violazione del copyright: l'industria della musica, ha spiegato ai giudici, crea un clima di terrore, minaccia i cittadini della rete ed estorce loro denaro

Hanno impugnato il sistema giudiziario con l’intento di allestire un clima di terrore e di disseminare il panico fra i cittadini della rete, si sono coalizzate per non lasciare che nuove tecnologie e nuove abitudini rosicchino un modello di business che non sanno più sostenere. Questa l’accusa scagliata da una cittadina statunitense contro le compagnie discografiche e contro la RIAA: difenderà le proprie argomentazioni in tribunale in una controdenuncia sporta contro coloro che la accusavano di violazione della proprietà intellettuale.

Ha denunciato l’industria della musica. Ha denunciato una manciata di etichette, RIAA e Safenet, l’azienda che controlla Mediasentry. I ruoli si sono capovolti : Shahanda Moelle Moursy si difendeva in un processo. Nel 2007 era stata riscontrata una violazione a mezzo Limewire. Mediasentry , il braccio armato dell’industria amputato da poche settimane, aveva scandagliato la cartella dei file condivisi di Moursy, aveva individuato in capo all’indirizzo IP a cui corrispondeva la sua macchina 498 file audio, abbandonati alla mercé dei downloader. A seguito di una denuncia contro ignoti il provider che aveva assegnato l’indirizzo IP all’abbonamento, il fornitore di connettività dell’Università statale della Carolina, era stato chiamato a testimoniare e aveva rivelato il nome della giovane. I detentori dei diritti hanno giocato le loro carte, hanno espresso le loro proposte per appianare il contenzioso, come consuetudine. Moursy aveva respinto al mittente ogni tentativo di patteggiare ed era stata raggiunta da una denuncia.

Moursy ha ribattuto all’industria con una controdenuncia . Le etichette e Mediasentry, ora noto come Safesearch, sarebbero sconfinate nella proprietà privata della donna, attraverso Mediasentry avrebbero avuto accesso ad una rete di computer senza autorizzazione, avrebbero frugato nella cartella dei file condivisi di Moursy, avrebbero ingaggiato delle pratiche commerciali scorrette.

La donna ricostruisce a favore del tribunale le procedure con cui l’industria dei contenuti era solita rivolgersi agli utenti, descrive le strategie dei detentori dei diritti come tasselli di una campagna che sarebbe volta a intimidire i netizen. In primo luogo chiama in causa Mediasentry: i metodi imbracciati dall’azienda per indagare sui nodi del P2P sarebbero illegali , così come stabilito in numerose occasioni al di qua e al di là dell’Atlantico. Non ci sarebbe modo, denuncia Moursy, di verificare che gli indirizzi IP rastrellati siano stati protagonisti di alcuna violazione, non ci sarebbe modo di attribuire la responsabilità di alcuna azione ad un singolo individuo : “gli ISP non possono in alcun modo conoscere le identità della persona o delle persone che starebbero usando il computer o la rete di computer nel momento dell’irruzione da parte delle case discografiche”. L’indirizzo IP, argomenta infatti Moursy, non rappresenta un cittadino ma l’intestatario di un abbonamento.

Nel momento in cui il tribunale abbia ordinato al provider di snocciolare i nomi, nel momento in cui l’industria dei contenuti abbia provveduto a mettersi in contatto con la persona artificiosamente ricollegata all’indirizzo IP, entrerebbero in gioco le pratiche commerciali mirate a “estorcere denaro alle persone identificate per mezzo dell’azione legale condotta in segreto”. Farebbero leva sulla disparità di risorse legali, farebbero leva sulla disparità di risorse monetarie: suggerendo ai netizen di accettare di chiudere il caso con un accordo extragiudiziale che preveda un rimborso in denaro, sottilmente paventano l’eventualità di coinvolgerli in un processo lungo e dispendioso. Non guarderebbero in faccia a nessuno, spiega Moursy: canute digitaldivise e minori inconsapevoli , RIAA non risparmierebbe nemmeno disabili e malati . “Molte di queste vittime – affonda Moursy – non hanno idea di come far funzionare un computer, figuriamoci se sono in grado di installare e usare un software per scambiare della musica che in ogni caso non ascolterebbero”.

RIAA e le etichette hanno chiesto al tribunale di sbaragliare le accuse mosse da Moursy: si tratterebbe, spiegano nella mozione , “di un tentativo poco più che ambiguo da parte della difesa di far condannare l’accusa per i loro legittimi tentativi di far valere il loro copyright”.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
3 mar 2009
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