Tra like ed engagement, nel tritacarne di noi stessi

Tra like ed engagement, nel tritacarne di noi stessi

Le ultime settimane hanno proposto con grande costanza fatti e dibattiti nati sui social e deflagrati a colpi di like e minacce: tutto bene?
Tra like ed engagement, nel tritacarne di noi stessi
Le ultime settimane hanno proposto con grande costanza fatti e dibattiti nati sui social e deflagrati a colpi di like e minacce: tutto bene?

Ferragni. Lucarelli. Bigiarelli. Pedretti. Mariotti. Nomi che si snocciolano in queste ore in parte come vittime, in parte come aggressori, a volte entrambe le cose, ognuno a ritagliarsi la funzione che ritiene più utile ed opportuna in questo immenso gioco di ruolo che è il social networking.

Nulla come i social ha creato la possibilità di dar vita a grandi community che nascono e che muoiono nel giro di poche ore, e che proprio per questo motivo sarebbe ora di smettere di chiamare “community“. Perché un pensiero collettivo non è community, semmai è delirio. Non c’è community senza una storicità, valori consolidati, identità mutuamente riconosciute, rapporti solidi e visione comune. Ma in questa steppa senza confini né punti di riferimento, chi sa calamitare a sé la forza del gruppo, con l’arma dei grandi numeri viene ad avere un potere eccezionale che può sfruttare a proprio uso, consumo e piacimento. Non importa come, né perché: i grandi numeri sono grimaldello e chi non ha l’elmetto deve fare attenzione.

La dinamica degli influencer è quella più nota, poiché basata su un commercio di visibilità e denaro che (condivisibile o meno) rappresenta un elemento del marketing odierno. Quanto accaduto con l’affair Balocco getterà probabilmente una doccia d’acqua fredda e di sano realismo sui piani di investimento di qualche brand, ma l’influencer è qui per rimanere perché funzionale al gioco comunicativo e per certi versi nulla impedisce di fare questo mestiere anche con una certa linearità deontologica. Il male non è l’influencer in sé, quanto il valore che le masse ciecamente vi potrebbero attribuire e del quale potrebbe approfittare anche con modalità indebite. Ben vengano indagini e chiarimenti, soprattutto quando in ballo ci sono allucinazioni collettive da ridiscutere.

Quel che invece arriva soltanto ora alla percezione dell’opinione pubblica è il potere pericoloso ed incontrollabile delle masse che si fanno forza attorno ad improvvisate cattedre ideologiche. Il populismo è infatti sempre dietro l’angolo, i processi sommari sono quanto di più pericoloso la storia abbia mai visto e le reazioni incontrollate delle schegge impazzite possono avere effetti deleteri di grande pericolosità. La morte della ristoratrice che aveva probabilmente osato là dove fioriscono le recensioni fake, infatti, è una matassa di errori e di blastatori, dove per uscirne bisogna avere le spalle larghe e una grande capacità di colpire. Ogni parte avoca a sé la verità ed il diritto ad identificarla (nonché interpretarla), ideologizzando il ruolo del giornalista come semplice avventore dell’inchiesta subitanea dalla sentenza facile e dal “noncielodicono” seriale. Parole al vento, affidate a stories e post, con engagement impazzito per l’improvvisa eco che anche la tv offre per inedia e incompetenza.

E le masse? Le masse prima minacciano la ristoratrice, poi minacciano la blastatrice, infine blasteranno altri ancora in questo inseguimento di parole che servono per posizionarsi, per caricarsi di valore, per riempire di significato le proprie bacheche. Le dinamiche violente del gruppo sono note da molto tempo, ma i social ne hanno ricreata una dimensione nuova. Non sono solo like, sono tifo; non sono solo condivisioni, sono pulpiti; non sono solo opinioni, sono sentenze. E visto che in tutto ciò non si risponde di nulla e a nessuno, la violenza del linguaggio cresce rapida, creando un fuoco incrociato nel quale anche un malcapitato può trovarsi invischiato. Come quel semplice utente mostrato da Fedez in diretta come una “faccia di ****a”, sebbene si trattasse di un profilo fake con immagine presa da un altro utente.

Per capire queste dinamiche bisognerà scavare tanto nella psicologia del singolo, quanto nella psicologia delle masse, scavallando quindi nella sociologia per riscrivere quindi le regole di ingaggio che portano gli utenti a comportarsi in modo prevedibile e violento di fronte ad impulsi che i social network somministrano con grande regolarità e quantità. Ma in questa sfilata di para-influencer, social-cosi, starlette e raccatta-follower, c’è qualcuno che potrebbe fare qualcosa di decisivo assumendosi responsabilità dalle quali troppo spesso abdica. Quel qualcuno siete voi, siamo noi, tutti. Ognuno, di fronte a qualsiasi post, può cliccare e dire la propria, oppure tacere, studiare, capire e quindi tacere ancora se il contributo apportato non sarà di valore, verificato, opportuno e ben calibrato. Rispondere alla propria autocoscienza, insomma, prima di cliccare e sparare. Ognuno di noi ha un impatto sul tutto e solo ragionando in termini di sostenibilità relazionale in questo macrocosmo di ecologia della comunicazione sarà possibile riportare un attimo di serenità nelle dinamiche sociali.

I social network sono un grande strumento, ma lo stiamo usando malissimo. Chi li sviluppa ha le sue innegabili colpe, ma chi vi agisce al di sopra ha responsabilità proprie, individuali, che non bisogna mai sottovalutare o rinnegare. Ferragni. Lucarelli. Bigiarelli. Pedretti. Mariotti. Domani ne avremo altri, vittime o carnefici, perché abbiamo trasformato una rete in un tritacarne. Siamo ancor sempre in tempo a cambiare idea: un pizzico di cultura nelle relazioni umane, un tocco di discrezione ed una spolverata di basilare educazione non guasteranno. Altrimenti hai voglia a puntare il dito contro i ragazzini perimetrandoli come la generazione del bullismo.

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Pubblicato il
16 gen 2024
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