Gli argomenti “social” più di moda in questo mese di febbraio sono due: l’avvento di Google Buzz , che altro non è che una rivisitazione di FriendFeed con qualche problema di privacy in più. E poi c’è il caso, invero un po’ più di tendenza, di Chatroulette : videochat casuale con perfetti sconosciuti , acclamata dalla stampa “tradizionale” come l’ultima stramberia di Internet, ovvero un buon riempitivo delle pagine di alleggerimento che non vanno prese troppo sul serio. Tanto “è quella roba lì da teenager”.
Ritornare sulla querelle privacy di Google Buzz è forse inutile e poco generoso: Mountain View ha ammesso di aver sottovalutato la complessità del sistema , di aver fatto le cose di fretta, di aver lanciato un servizio senza aver compreso fino in fondo le conseguenze del suo funzionamento. La colpa, se di colpa si può parlare, è stata così distribuita su più spalle e nessuno si farà male: anzi, secondo BigG nessuno si è fatto male. Va tutto bene, non è successo niente: e forse è vero, non è successo niente.
Un passo indietro: come vengono elaborati e sviluppati i servizi di Google. Per Buzz, come per Gmail, Chrome, ChromeOS, Reader, Docs e quasi tutti gli altri prodotti lanciati fino a oggi da BigG, l’idea nasce da un’esigenza di un singolo o di un piccolo gruppo, magari sviluppata in quel famoso 20 per cento di tempo che tutti i dipendenti hanno a disposizione nel corso della settimana per portare avanti progetti personali. Se e quando raggiungono un certo stadio di maturazione, “alpha” per intenderci, se sembrano utili per tutti i Googler allora vengono ulteriormente sviluppati e messi a disposizione dei dipendenti: in questo modo sono gli stessi utilizzatori a fare debug e identificare le feature da implementare.
Quello che succede di solito è che, a un certo punto, a Mountain View qualcuno decida che quel servizio è buono anche per il grande pubblico: ormai è arrivato a una versione “beta”, è grossomodo stabile e relativamente scalabile, e viene somministrato al mondo intero che svolgerà ulteriormente il ruolo di debugger. La novità, nel caso di Buzz, è che pare che il passaggio intermedio della fase alpha sia stato brevissimo o pressoché nullo, e che quindi il progetto sia arrivato al pubblico poco maturo o comunque incompleto.
Forse, però, occorre fare anche una considerazione diversa su come sono andate le cose. Se anche Buzz fosse stato utilizzato per brevissimo tempo dai Googler, non sarebbero serviti che pochi minuti per identificare quello che è stato senza dubbio il tallone d’Achille percepito dal pubblico di Gmail: la condivisione automatica e trasparente della propria lista contatti, ivi compresi i più utilizzati, con l’universo mondo. È improbabile che dentro il Googleplex non ci sia nessuno che scambi corrispondenza “piccante” o comunque sconveniente tramite il suo account di posta, e visto i criteri piuttosto selettivi adottati per la scelta del personale è auspicabile che un dipendente Google sia ferrato in materia di servizi Internet.
Probabilmente, ma è ovviamente un’ipotesi, semplicemente i Googler non hanno percepito il problema : la privacy, argomento che soprattutto in Europa tiene banco quando si parla di Internet, negli USA non è altrettanto scottante come questione, o quantomeno si è più sereni per quanto attiene la sua gestione e le eventuali correzioni in corsa che si rendano necessarie. E ormai passata alla storia la sfortunata vicenda di Facebook e del suo Beacon , il sistema draconiano di raccolta di attività personali in Rete già ricordato da Massimo Mantellini all’inizio di questa settimana proprio su queste pagine.
Si può sostenere che i Googler, in quanto dipendenti della più grande corporation Internet del mondo, siano forse gli antesignani di una nuova categoria di cittadini, quei netizen di cui spesso scriviamo, parliamo, dibattiamo: sono a tutti gli effetti gli architetti e i carpentieri di una nuova vita digitale che stiamo costruendo in questi anni , dove tutto (dalla lista della spesa al curriculum vitae, dagli album fotografici alle cartelle mediche) si sposta gradualmente dai nostri cassetti ai nostri hard disk, e poi nelle nuvole del cloud computing.
Per i Googler una certa dose di compromessi per quanto attiene la propria privacy è normale . Condividere le informazioni sulla propria vita personale con l’azienda di cui fanno parte è un’attività naturale: sentendosi parte di Google non avvertono quel senso di paura ancestrale che alcuni navigatori percepiscono di fronte alla mole di BigG e alla sua pervasività nella vita online e offline. Mentre noi comuni mortali ci confrontiamo con Mountain View quasi fossimo Davide contro Golia, i Googler semplicemente sono Golia: la loro percezione di quanto è personale e deve restarlo è differente dalla nostra.
D’altra parte, non si può non guardare con interesse a quanto succede sulle pagine di Chatroulette: un sito, lo si è scoperto proprio in questa settimana, creato da un 17enne russo per soddisfare le esigenze sue e dei suoi amici appassionati di videochat. E cosa c’è di meglio, una volta esaurita ogni curiosità in video e audio rispetto ai propri conoscenti, di iniziare a fare lo stesso con perfetti sconosciuti? La chiave di Chatroulette è proprio questa, ed effettivamente è un’idea affascinante: sembra incredibile che ci siano voluti 19 anni (dal 1991 al 2010) per mettere insieme gli strumenti necessari a creare questa esperienza, che annulla ogni teoria dei gradi di separazione e (in un certo senso) dà un vero senso al ruolo di Internet, mettendo in comunicazione potenzialmente ogni singolo utente con qualunque altro.
Con Chatroulette si è esposti al passaggio della varietà dell’universo umano: in Rete circolano le esilaranti immagini di un/una chatter travestita da gatto maculato, ma passando qualche ora con in background una finestra aperta sul sito si possono fare gli incontri più disparati, che vanno dagli esibizionisti impegnati a fare sesso davanti alla webcam, ai ragazzini in cerca di ragazze da importunare, aspiranti ballerini, aspiranti musicisti, burloni con in mostra scenografie (più o meno di buon gusto) con cadaveri e sangue in bella mostra. Niente che non si sia magari già visto, ma il punto è un altro: il pubblico di Chatroulette è eterogeneo per età, nazionalità, professione, e nessuno sembra preoccupato di mettersi alla prova o in mostra davanti a perfetti sconosciuti .
È improbabile che tramite Chatroulette si possa risalire all’identità dei chatter, ma ciò non toglie che, nonostante le continue raccomandazioni di aziende e istituzioni e autorità ai più giovani (e a tutti gli altri) a non accettare chat dagli sconosciuti , migliaia di persone abbiano provato il servizio o si accingano a farlo. Non è questione di incoscienza, è semplicemente la reazione più naturale che l’umanità possa mostrare in una situazione del genere: è la normale e tradizionale tendenza a provare, esplorare, confrontarsi con la novità e l’ignoto , la stessa tendenza che tiene in piedi il progresso scientifico.
Il creatore di Chatroulette come detto è un 17enne: rappresenta cioè quella fetta di popolazione che viene comunemente definita dei “nativi digitali”, coloro che sono venuti al mondo dopo la nascita del World Wide Web nel 1991 nei laboratori del CERN di Ginevra. Rappresenta, con la sua idea, il concetto che la sua generazione ha della Rete: un posto dove riprodurre una parte di sé, dove costruire un proprio alter ego senza curarsi troppo delle conseguenze che l’esposizione di informazioni che “noi vecchi” riteniamo sensibili potrebbe causare . In un certo qual senso, Google Buzz soffriva all’esordio proprio di questo “male”: troppo aperto, troppo libero, troppo disinibito.
Autorevoli editorialisti di questo giornale hanno da sempre posto l’accento sull’importanza del controllo delle proprie informazioni che fluiscono in Rete, e nessuno nega che esista un problema legato a come e chi manipola queste informazioni : tuttavia, appare difficile negare che a qualcuno potrebbe anche star bene che tutto sia a disposizione di tutti. E che, in un contesto nel quale la vita di qualunque individuo sia specchiata e disponibile online al pari di tutte le altre, improvvisamente il bisogno di mantenere privati i fatti propri potrebbe decadere.
Google, visto che si parla di Google in questo caso, o chiunque altro finisca per avere in mano queste informazioni, non dovrà per forza trasformarsi in un malvagio demiurgo che tenterà di insidiare le nostre vite. Allo stesso modo in cui taluni di noi ripongono la speranza che la scienza possa condurre l’umanità a un destino migliore, salvando il pianeta dall’inquinamento, anche la tecnologia (che è parte della scienza) potrebbe giocare un ruolo determinante nel cambiare le regole della società .
E, perché no, potrebbe farlo in meglio: forse, con le dovute cautele, sarebbe una buona idea cominciare a fidarsi dei cambiamenti che Internet apporta alla cultura e alle abitudini di chi la utilizza . Se si crede che lo strumento abbia trasformato per sempre il genere umano, sarebbe coerente riporvi una certa dose di fiducia, per evitare di ritrovarsi improvvisamente nella retroguardia invece che all’avanguardia.
Luca Annunziata