Google non dimentica il diritto all'oblio

Google non dimentica il diritto all'oblio

La sentenza europea ha spinto Mountain View a chiedere consiglio. Troppe le ambiguità in campo per considerare soltanto di applicare una sentenza controversa. La tappa romana dell'Advisory Council istituito da Big G
La sentenza europea ha spinto Mountain View a chiedere consiglio. Troppe le ambiguità in campo per considerare soltanto di applicare una sentenza controversa. La tappa romana dell'Advisory Council istituito da Big G

“Rispettiamo la decisione europea: certo sarebbe stato d’aiuto se fosse stata scritta con un po’ più di chiarezza sui dettagli”: Eric Schmidt, presidente di Google, strappa una risata all’uditorio romano intervenuto per osservare la seduta dell’Advisory Council creato da Mountain View per venire a capo della complicata e controversa vicenda del diritto all’oblio. La tappa nella Capitale è la seconda di un tour che toccherà diverse città in Europa, con un solo scopo: fornire a Google degli spunti per tracciare delle linee guida chiare per gestire le richieste piovute su Big G dopo la sentenza del maggio scorso .

Vale la pena chiarire subito un punto: come si sa, Google ha messo già in piedi un sistema di raccolta delle richieste e ha già iniziato a “ripulire” da alcuni risultati i suoi indici. Ma ci sono, a detta dell’azienda , delle situazioni ambigue che costringono a profonde riflessioni e non trovano soluzioni semplici : considerato che alla data del 1 settembre erano già oltre 120mila le segnalazioni giunte, ciascuna con fino a 4 URL sottoposte a revisione per essere “dimenticate”, va da sé che si tratta di un lavoro complesso e molto dispendioso sul piano economico e più in generale delle risorse dedicate alla questione (e se Google può permettersi questo impegno, non tutti potranno: assisteremo a una contrazione della concorrenza nel settore per questo?). Il tutto per obbedire a una decisione che ha posto in capo a un motore di ricerca il problema di garantire l’oblio ad informazioni che restano, invece, disponibili e indicizzate tranquillamente per esempio dai giornali che le hanno immesse online.

C’è ovviamente una grossa componente di pubbliche relazioni, o di marketing se si preferisce, nella decisione di Google di invitare eminenti professori ed esperti a far parte di un comitato di consultazione sulla materia: come ha chiarito in sede di conferenza stampa il professor Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione all’università di Oxford, non c’è neppure alcuna garanzia che questo comitato sarà in grado di fornire un contributo definitivo alla creazioni di procedure precise da seguire . “Ci potranno essere anche punti di disaccordo tra di noi” ha spiegato Floridi, unico italiano a far parte del Comitato, e in quel caso il documento finale che descriverà i risultati di queste attività consultive in giro per il Vecchio Continente conterrà anche una precisa descrizione dei punti di accordo e di disaccordo tra i membri.

Alla luce di questa indicazione, appare chiaro che il peso finale che avrà l’operato di questo Comitato non sarà decisivo: sta di fatto che Google si trova alle prese con una questione mai del tutto chiarita sia a livello legislativo che sul piano sociale, e non a caso nel corso del dibattito si è discusso anche di questioni con radici lontane ma quanto mai attuali, quale ad esempio la funzione riabilitativa delle pene, o il diritto dell’individuo a vedere la propria reputazione “ripulita” dopo aver scontato la propria sentenza. Quando il professor Zeno Zencovich (uno degli esperti invitati a fornire la propria opinione al Comitato) cita a proposito il concetto di damnatio memoriae , appare evidente a tutti che si discute di questioni antiche in un contesto nuovo. Non può essere un organo giudiziario come ha sottolineato un’altro degli esperti, il professor Oreste Pollicino, a colmare un vuoto lasciato tale dalla politica in tutti questi anni (e che solo adesso pare aver iniziato a prendere in considerazione ).

Ma quali sono questi casi ambigui di cui si discute? Si pensi ai casi di familiari di assassini rei-confessi, di cittadini accusati di crimini efferati, di vittime di fatti di cronaca loro malgrado, di sentenze ribaltate in appello: è giusto o meno chiedere la rimozione dai database di Google dei link alle notizie su un reato alla violenza sui minori, dopo che il suo autore condannato ha scontato per intero la propria pena? La pena ha svolto la sua funzione riabilitativa, o in questo caso la privacy del singolo deve venire messa in secondo piano rispetto al diritto del pubblico di essere informato? Situazioni come queste mettono in luce al meglio il contrasto tra il diritto all’informazione, la libertà di espressione, la privacy e il diritto all’oblio generato dalla sentenza europea di maggio: e se Frank La Rue , che fa parte del Comitato e che di diritti umani si occupa da 35 anni, ritiene di dover ricordare a tutti che i diritti fondamentali non sono espressi in forma gerarchica ma sono bensì una rete di protezione per gli individui, ecco che scattano alcune riflessioni sulla portata effettiva di quanto si sta discutendo.

Il panel di esperti che si è pronunciato ieri a Roma non ha chiarito neppure quale sia il modo migliore di definire il ruolo di Google: è un intermediario, è un fornitore di servizi? Va applicata la norma sulla protezione dei dati o la direttiva sull’e-commerce? Ora è in capo a Google, motore di ricerca, la responsabilità di decidere su cosa sia da dimenticare e cosa no: ma con quali strumenti e quali competenze un motore di ricerca può operare queste scelte, secondo quali criteri, con quali conseguenze sul piano storico ? Di nuovo in conferenza stampa la professoressa Peggy Valcke, anche lei nel Comitato, ha sottolineato che in ogni caso le notizie restano conservate negli archivi dei giornali: ignorare tuttavia che Google e i motori di ricerca oggi costituiscono il primo luogo dove i navigatori si recano in cerca di informazioni , e che per i giornali stessi sono fonte primaria di accessi, significa guardare solo a un lato del problema senza considerarlo nel suo complesso e senza offrire a tutti i diritti fondamentali degli individui pari attenzioni.

Forse la vera morale di questa storia sta nella ricerca di una soluzione pratica al problema. Il professor Alessandro Mantelero, nel corso del suo intervento, ha lanciato una proposta: link rimossi automaticamente per 30gg, ma se entro tale data non viene anche messo in piedi un procedimento legale per venire a capo di situazioni nelle quali si configuri il reato di diffamazione allora i link dovrebbero tornare al proprio posto. Anche questa tuttavia è una semplificazione che non copre tutte le possibili circostanze che Google si troverà a dover affrontare: addossare al motore di ricerca questo compito, ha detto sempre Mantelero, è appunto solo la soluzione più semplice.

L’opinione comune tra gli esperti, sia quelli che hanno ritenuto di appoggiare sia quelli che dissentono dalla sentenza di maggio sul diritto all’oblio, pare convergere verso una raccomandazione: sono necessarie norme e indicazioni chiare su come svolgere questo delicato compito, tramite una nuova legge che chiarisca in modo univoco dove inizia e dove finisce il diritto all’oblio, o anche tramite un’istituzione pubblica, terza, che si prenda carico di dirimere le vertenze più complesse . Senza contare che solo in Europa ci si deve confrontare con oltre 20 legislazioni e culture differenti (il Garante Privacy italiano ha già fatto sapere di stare valutando la situazione), che prevedono diversi bilanciamenti tra i vari diritti: e, come spesso accade in questo settore, in ballo c’è un’azienda statunitense che deve rispondere a leggi del Vecchio Continente, e che si vede costretta a declinare in modo differente i propri servizi a seconda della nazione in cui opera.

Non è impossibile o improponibile che eventuali orientamenti europei possano condizionare il business d’Oltreoceano, ma è anche questo un fattore da considerare: si corre il rischio che una promettente startup ignori il mercato UE, per evitare di dover essere costretta a rispettare norme e regole soffocanti per un’azienda che muove i suoi primi passi con mezzi limitati. È questa la miglior ricetta per promuovere l’innovazione in Europa?

Luca Annunziata

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Pubblicato il 11 set 2014
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